La CUCINA Elbana trae origine dalla sua tradizione contadina più che da quella del mare. Oggi è diverso perchè l'acceleratore Turismo ha cambiato le abituidini e le esigenze ma resta l'impronta nella cucina semplice delle famiglie. Il concetto è ben spiegato da Luigi Cignoni. con la sua introduzione nel libro CONGUSTO (Etologia Gastronomica delle Isole di Toscana)




Introduzione
a cura di Luigi Cignoni

Si sa che la terra ha rappresentato per gli Elbani, nel corso della loro millenaria esistenza, la "Dea nutrice", fonte di primaria sussistenza che ha garantito la loro stessa vita e quella delle future generazioni. Un rapporto di dipendenza come esiste tra madre e figlio, avendo però la convinzione, ognuno, che la relazione scambievole che intercorre fra i due soggetti, deve basarsi, sul reciproco rispetto. La sacralità del rapporto ha radici ancestrali, profonde. Facile scambiare la fertilità della terra con la Divinità che viene incontro alle esigenze dell'uomo-figlio e che lo protegge, che lo custodisce regalandogli i frutti di stagione, ma che è anche pronta a punirlo, quando lui non rispetta più le regole e non sta più ai patti, ecco allora le alluvioni, con la perdita del raccolto, le malattie a cui le piante spesso sono soggette, le carestie che avrebbe in seguito scatenato le pestilenze a causa della malnutrizione. Un filo rosso che si è dipanato lungo la linea della storia: dai Liguri, ai Fenici, dagli Etruschi ai Romani, dai Longobardi ai Pisani, dai Fiorentini ai Francesi. È proprio con Napoleone Bonaparte che certe nuove impostazioni d'intendere la terra, di rapportarsi a essa e confrontarsi sempre con lei, cominciano a farsi sentire. Viene elaborato innanzitutto il concetto stesso di "proprietà terriera". Ma sarà con il Novecento che si sentirà parlare delle prime riforme agrarie, con cui dare una risposta al problema della Questione Meridionale. Nella tradizione popolare, l'agricoltura, l'estrazione mineraria e la pesca, sono simboleggiate dalle tre api d'oro presenti nella bandiera napoleonica (unica nel suo genere) disegnata dall'Imperatore francese.
Un isola, intesa come risorsa mineraria da sfruttare per fini di supremazia, di dominio, di potenza. Un'attività, dunque, che vede,per protagonisti, prima gli Etruschi che basarono proprio sullo sfruttamento delle miniere elbane il loro prestigio e la loro incontrastata egemonia; poi i Romani che con il ferro delle armi crearono il grande impero e su su tutti gli altri fino ad arrivare ai tempi moderni. Bisogna risalire alla seconda metà del Novecento, per scorgere qualcosa di diverso: la terra intesa come territorio da "vendere" sul piano estetico, una ricchezza da "spendere" in chiave turistica. Ed è proprio con l'avvento dell'industria del turismo che si avrà una svolta epocale e radicale dal punto di vista socio-culturale di quelle che furono le principali attività lavorative e quindi le fonti di ricchezza e di guadagno degli Elbani che per secoli si era basato nell'agricoltura, nel cavar granito, nell'escavazione del ferro, nella pesca (tonno e pesce bianco) e nella marineria in generale. Nel corso dell'espletamento di simili occupazioni che producevano reddito alla popolazione residente si assiste a una lenta, ma continua trasformazione del territorio dell'Isola da parte dell'uomo.
E ciò in conseguenza, appunto, delle attività agricole, della pastorizia e del taglio dei boschi.
Per capire quanto l'agricoltura abbia inciso nei secoli passati nel trasformare anche i territori più scoscesi dei rilievi dell'Isola, lo si può intuire dai rilievi aerofotogrammetrici e dalle osservazioni successive al verificarsi degliincendi boschivi che purtroppo negli ultimi decenni hanno percorso centinaia di ettari di superficie boscata. L'eliminazione della copertura forestale, naturale o conseguenza di mirati interventi antropici, consente di riscoprire antichi terrazzamenti, muri a secco che testimoniano una centenaria intensa attività agricola per lo più custodita oramai soltanto nella memoria degli Isolani più anziani, protagonisti di vicende che saranno destinate a sparire per sempre.
L' agricoltura isolana era indirizzata il più delle volte a soddisfare le esigenze di nuclei familiari piuttosto ristretti, anziché pensare a grandi coltivazioni, mirate soprattutto allo smercio di prodotti sul mercato interno. Si coltivava nonostante la scarsità di acque, che vede la fioritura di pozzi di piccola e media capienza, disseminati qua e là nei possedimenti agricoli. Scrive Lambardi nelle "Memorie antiche e moderne dell'isola d'Elba", edito a Firenze nel 1791: "Non vi sono fiumi: bensì sorgenti di acque freschissime e limpidissime, in tutta l'isola e nominatamente quella fonte, già detta degli Schiumoli. La fonte detta Vasara. Le due perenni d'Acquaviva grande e piccola. Quella del Colello in riva al mare sotto le Grotte e molte altre che tralascio per brevità". I vigneti che una volta risalivano le alture sono stati in prevalenza abbandonati. I dati registrano una notevole riduzione della coltura della vite rispetto al passato, processo che iniziò alla fine dell'Ottocento, quando si diffuse in tutta la Penisola e poi sull'Isola, la filossera (Phylloxera vastatrix, temibile parassita della vite) con conseguente distruzione dei vigneti. Era l'anno 1882 e quello fu davvero un flagello che distrusse in pratica quasi tutto il patrimonio vitivinicolo dell'Isola. L'emigrazione che ne derivò e il processo d'industrializzazione conseguente l'avvio della siderurgia in Portoferraio, contribuirono all'abbandono quasi totale dei campi. Il motivo determinante di un simile fenomeno è rappresentato dalla difficoltà di trattare i vigneti. Eppure, nonostante questa tendenza negativa, si ebbe una ripresa, anche se fu molto lenta nel tempo. Essa si realizzò grazie all'utilizzo del portainnesto americano, che permise la coltivazione della vite attorno a duemila e 500 ettari prima del secondo conflitto mondiale e a oltre tremila negli anni Cinquanta. Per avere le idee più chiare, consideriamo -alcuni aspetti: secondo il censimento del 1830 le viti registrate sull'Elba furono oltre trentadue milioni, a monte di una produzione di settantasei mila enolitri: cifra molto bassa rispetto al dato di partenza. Oggi, con l'avvento e l'affermazione del turismo, molte cose sono cambiate. Innanzitutto si è ridotta la superficie viticola, scendendo a 350 ettari annuali. Successivamente sono state abbandonate le aree collinari, preferendo superfici pianeggianti e questo per rendere più facile la lavorazione con sistemi moderni. Di pari passo a tutto questo si è lavorato sulla qualità del settore. Quasi tutte le aziende si sono riunite, nel 1987, nell'associazione produttori elbani, prendendo coscienza del ruolo e dell'importanza che esse rivestono nel settore proponendosi (per la prima volta nella storia isolana) come interlocutori nei confronti delle istituzioni o delle altre organizzazioni nazionali. E i risultati hanno cominciato a farsi sentire. Prima di tutto con il consorzio di Tutela del vino elbano, poi attraverso l'ottenimento del bollino Doc (Denominazione d'Origine Controllata) applicato a prodotti che prima rappresentavano il 70 per cento e che ora si vanno estendendo sempre più anno dopo anno, inglobando un numero crescente di aziende.
Nei poderi in cui non era coltivata la vite, si producevano grano o farro, oppure ceci nei posti più assolati, lenticchie, "cibaie", come venivano chiamati i legumi in genere. Le fave utilizzate per il sovèscio (pratica agraria che consiste nel sotterrare nel terreno piante o parti di piante allo stato fresco), di cui i "baccelli" contenenti i semi ancora verdi e teneri, sono ancor oggi raccolti, all'inizio della primavera, per essere consumati a tavola con formaggio, pane e un buon bicchiere di vino. Ma i contadini erano anche soliti essiccare le fave: una parte serviva per la semina dell'anno successivo, un'altra invece per preparare semplici e gustose pietanze, per minestre che nell'inverno avrebbero rallegrato la mensa serale, quasi sempre piuttosto spartana.
Gli orti, fondamentali per l'economia locale fino al 1960, non erano molto lontani dai centri abitati. Per lo più si trovavano lungo gli uviali, i fossi, i rivi, dove cioè l'acqua, in un territorio peraltro caratterizzato da lunghi periodi di siccità, poteva consentire l'irrigazione. Qui si assisteva al trionfo di pomodori, cipolle, agli, melanzane e zucche. A un'agricoltura tradizionale che costituiva, fino ai primi anni del '900, la fonte di reddito più importante per la popolazione elbana, dopo il 1960 s'impose una nuova economia sull'Elba: l'industria del turismo. Così il settore primario, l'agricoltura, sarebbe andato a poco a poco diminuendo di addetti per favorire invece il terziario in fortissima espansione.
Quanto il turismo nei primi anni abbia contribuito alla crisi dell'agricoltura è chiaramente indicato nel Piano di Sviluppo Socio-economico 1998-2001, elaborato a cura della Comunità Montana dell'Elba e delle Isole di Toscana, nel quale, a proposito del mercato del lavoro essenzialmente orientato verso l'economia turistica di tipo stagionale, si legge: "In questa logica di sviluppo l'agricoltura è rimasta subordinata e passiva all'uso del territorio e delle risorse naturali: la produzione vitivinicola, unico elemento rilevante di continuità produttiva nel tempo, non è stata sufficiente a mantenere un tessuto imprenditoriale agricolo a livello delle altre zone toscane. La popolazione attiva in agricoltura è una componente sempre più trascurabile, mentre l'entità delle risorse ambientali richiederebbero un maggiore impegno nel settore anche a garanzia della loro tutela".
In linea con l'andamento generale del Paese, l'agricoltura elbana ha perduto, negli ultimi decenni, molti lavoratori. La tendenza ha visto mutare profondamente gli equilibri economico-sociali dell'Isola. Dell'agricoltura, in particolar modo. Tuttavia, negli anni più recenti, si è notata una ripresa dell'attività della lavorazione della terra. Progetti mirati elaborati e redatti da parte di Provincia e Regione (si veda il Piano Regionale Agricolo e il Piano Leader II d'iniziativa comunitaria), hanno contribuito a migliorare la situazione. Oggi le zone pianeggianti di Schiopparello, Acquabona, Mola, la Pila, Marina di Campo, sono interamente coltivate a vigna e producono vini a Denominazione d'Origine Controllata, che partecipano alle più importanti rassegne vitivinicole regionali e nazionali. I vini rossi, i vini bianchi, il moscato, l'aleatico, il procanico, il passito e il sangioveto non hanno niente da invidiare ai più qualificati vini delle colline toscane.
Un incremento si è registrato anche nella produzione razionale dei frutteti, in particolare di pesche e pere; minore la produzione di susine, fichi, albicocche, olive, mandorle e
castagne (Marciana e Poggio). La frutta locale, in genere, è ricercata perché la minore dimensione è compensata da un sapore più intenso. Nelle zone nelle quali scorrono corsi d'acqua, come nella Valle di Reale (Porto Azzurro), non mancano ortaggi.
Pressoché assente la coltura dei cereali, alcuni dei quali, come l'orzo, la segale e l'avena erano un tempo coltivati come foraggio per gli animali da stalla; oggi sono completamente scomparsi.
Un modesto contributo al miglioramento della situazione è offerto dall'agriturismo che, si sta diffondendo all'Elba come nelle altre zone agricole della Toscana. Alcune aziende agricole hanno potuto beneficiare dei contributi regionali e comunitari per modificare in strutture ricettive i locali tipicamente agricoli, come magazzini, fienili, cantine e per realizzare strutture sportive, come campi da tennis, maneggi, campi da gioco da offrire agli ospiti estivi, oltre i prodotti dell'azienda agricola come vino, miele, frutta, ortaggi e uova.
Sul territorio elbano è in atto un processo di rinaturalizzazione che vede protagonista il bosco. La superficie del bosco sta riconquistando gli antichi spazi perduti. Così, nonostante il processo di antropizzazione del territorio conseguente all'impennata esponenziale del turismo, soprattutto in talune aree a ridosso delle spiagge,
l'Isola si presenta più verde di prima.
Tornando invece al paesaggio agrario,oggi esso è in gran parte determinato dalvigneto specializzato, da qualche frutteto, da qualche oliveto, raramente da piantagioni di agrumi. Oggi il paesaggio agrario è presente nelle zone pianeggianti che non sono in verità molto estese, occupando il 7 per cento circa della superficie.
Per gli anni a venire quale indicazione è possibile prevedere? Probabilmente la superficie a vigneto, con l'impianto specializzato, è destinata ad aumentare. Già oggi la vite interessa il 24% della Superficie Agraria Utilizzata (Sau). L'aumento di coltivazione dovrà riguardare verosimilmente produzioni di qualità particolari e di elevata tipicità. Anche l'olivicoltura, che ha subito una forte contrazione con una diminuzione del 60% e che interessa oggi solo il 5,5 per cento dell'intera superficie, potrebbe utilmente essere incentivata.
Gli ultimi dati statistici evidenziano un aumento di superficie coltivata ad agrumi. Si tratta peraltro di un settore ortofrutticolo che potrebbe trarre validi motivi di espansione, anche per il piacevole impatto visivo. Una delle prerogative dei modesti appezzamenti coltivati nei pressi del piccolo centro abitato di Pomonte, nel settore occidentale dell'Isola, è quella dell'indicativa presenza di piante di agrumi che, con le loro fruttificazioni, caratterizzano il paesaggio, vivacizzandolo ulteriormente.
Il paesaggio agrario dell'Isola dunque, è in via di profonda modificazione; il bosco, soprattutto con la macchia mediterranea, sta recuperando ampi spazi e riesce a mimetizzare antichi muri a secco e quel modeilamento tipico del territorio dell'Isola. Le colture specializzate di vigneto stanno progressivamente sostituendo quello tradizionale che era spesso effettuato su terrazzamenti i quali non consentivano la lavorazione meccanica. Gli agrumeti sono più presenti sul territorio, così come gli impianti specializzati a frutteto. Sarebbe peraltro utile, importante e cronologicamente corretto salvaguardare, conservare e diffondere le
vecchie coltivazioni di piante da frutto che caratterizzano, con la loro sporadica presenza, le campagne. Il castagneto, importante presenza sul versante occidentale dell'Isola, probabilmente si sostituì alle grandi foreste di lecci che ricoprivano il territorio elbano e che furono usate nei forni in cui si fondeva il minerale di ferro. Bisogna alire nei borghi marcianesi per capirne l'importanza, al
punto che gli anziani affidavano una pianta a ognuno dei loro figli, per avere di che mangiare.
Il castagno comefonte di ricchezza e di conseguenza il castagneto era l'ultimo appezzamento di terreno che era messo in vendita per una famiglia pogginca: se si arrivava a offrire sul mercato il bosco di castagno, era segno che si era giunti al
fondo delle proprie risorse. Dopo di quello, c'era la soglia della povertà. Insomma si ebbe una vera e propria civiltà del castagno che sviluppò usi, accrebbe costumi, incrementò tradizioni e folklore nel soddisfare i bisogni primari di tutti.
Alcuni decenni orsono i castagneti da frutto erano ben tenuti, decespugliati ogni anno per favorire la raccolta dei frutti all'inizio dell'autunno. Oggi l'incuria dei proprietari, la devastazione degli incendi, la concorrenza di altre specie, hanno portato il degrado là dove l'attività dell'uomo si manifestava con l'ordine e la cura nel bosco dalle suggestive penombre. Eppure il castagneto è un bosco straordinario, con un valore che va ben oltre quello economico, direttamente conseguente alla raccolta dei frutti o all'utilizzo del legname, che pure merita molta attenzione. Il castagneto è, infatti, un bosco particolarmente adatto alla funzione turistico-ricreativa nell'ambito di un territorio complesso e mutevole, con l'alternarsi delle stagioni, che non deve puntare soltanto sulla balneazione.
Il mare, nell'arcipelago, è ritenuto l'ottava meraviglia, dopo le sette bellezze che sono rappresentate invece dalle maggiori isole. Niente da eccepire, allora, se la pesca è considerata un'attività secolare. Ma anche sull'arcipelago (come del resto altrove nel nostro Paese), quando si inizia a esaminare questo comparto, ci si accorge che esso soffre di carenze strutturali antiche, mai colmate. Ricordiamole in breve: carenza di personale amministrativo a livello locale, sistema statistico inadeguato quando si tratta di conoscere dati, porti o spazi acquei destinati alla pesca carenti di servizi e di infrastrutture, mercati ittici lasciati all'iniziativa privata. E ci fermiamo qui. Una timida iniziativa di organizzazione del settore primario arriva dal Ce.S.I.T. (Centro di Sviluppo Ittico della Toscana) di recente istituzionalizzazione, che offre assistenza a tutte le associazioni di pescatori che operano sull'arcipelago e sulla costa. Un buon punto da cui iniziare.
La prima forma di pesca esercitata sull'Elba è stata di tipo artigianale, viste le caratteristiche stesse dei fondali isolano. Infatti, laddove sono presenti le secche come a Capo Bianco, alle Formiche di Montecristo o alla Meloria la pesca artigianale è molto sviluppata, mentre dove i fondali sono assai profondi si ha in prevalenza la pesca a strascico. A tutt'oggi, la pesca artigianale rappresenta l'elemento caratterizzante dell'Elba e di tutto l'arcipelago, facendola diventare un "unicum" del genere.
Alla fine dell'Ottocento lungo la costa settentrionale dell'Isola d'Elba erano presenti tonnare e tonnarelle. L'eccessivo prelievo della risorsa che ha portato a una sensibile diminuzione ha reso le strutture non più remunerative. Oggi delle tonnare presenti un tempo sull'Isola rimangono solo le strutture in muratura che talvolta si trovano in stato di abbandono, come quella del Bagno (Marciana Marina) o quella dell'Enfola (recuperata dal punto di vista architettonico, dal Parco Nazionale dell'Arcipelago ma non fruibile al pubblico). Un'altra tipologia di pesca è quella a strascico. Le origini di tale attività risalgono agli inizi del Novecento quando si trasferirono a Marina di Campo e a Porto Azzurro nuclei di pescatori provenienti dalle Isole Ponziane con le loro caratteristiche imbarcazioni. Si pescava prevalentemente il "pesce povero", cioè quello classificato come di seconda e terza categoria. In seguito si sono aggiunte unità provenienti dall'Adriatico e da San Benedetto del Tronto, dando così origine a un settore produttivo importante per l'economia locale. Anche la pesca a circuizione è presente all'Elba. Generalmente essa si pratica su fondali molto profondi dove si verificano fenomeni di risalita di nutrienti che fa-voriscono la presenza di pesce pelagico, acciughe, sardine, lacerti e così via. Essi si trovano a nord dell'Elba verso Capraia. Il compartimento di Portoferraio è quello maggiormente caratterizzato dalla presenza di lampare. In pratica la flotta da pesca dell'arcipelago può essere suddivisa in tre gruppi: strascico (si catturano esemplari appartenenti alle specie demersali), circuizione (piccoli pelagici) e posta (imbarcazioni armate con tramagli e reti a imbrocco, palami e altri attrezzi usati lungo costa per catturare specie demersali, bentoniche e pelagiche). Per vedere imbarcazioni dedite alla piccola pesca basta andare in Darsena a Portoferraio o al molo di Marina di Campo.
Alcuni abitanti di questo borgo marittimo, in alcuni periodi dell'anno, praticano la pesca a bollentino cioè con le lenze a mano. Essa viene effettuata a largo (profondità di circa trecento/quattrocento metri) per la cattura di manfroni. Un attrezzo del mestiere del tutto particolare all'Elba e nel resto delle isole è la nassa. Si tratta di piccole trappole costruite artigianalmente dagli stessi pescatori con caratteristiche diverse in base alle specie che devono catturare. Generalmente hanno una forma cilindrica o a tronco di cono; presentano una o due bocche costruite in modo tale da impedire al pesce rimasto intrappolato di mettersi in salvo. Generalmente sono impiegate per la pesca di polpi di scoglio,
seppie, aragoste e tanute. Durante la brutta stagione, alcuni equipaggi dediti alla pesca artigianale
abbandonano tale attività, per indirizzarsi a differenti mestieri. Altri, invece, praticano la pesca del "rossetto", un gobide di piccole dimensioni (Aphia minuta), la cui cattura è regolamentata a livello ministeriale. È una pesca che si effettua in prevalenza durante le ore diurne e viene attuata con la "sciabichella", una rete a circuizione che viene calata sul banco di pesce individuato con l'ecoscandaglio e recuperata con una complessa procedura per mezzo del verricello meccanico dell'imbarcazione. Si catturano zerri, boghe, mendole, seppie, palombi e razze.
In primavera invece mortelle, saraghi, molluschi, crostacei e, con il tramaglio, pesci da cacciucco: triglie, scorfani, capponi, margherite, polpi, palombi, gattucci, dentici, murene, granchi. Accanto alla pesca professionale, c'è quella per dilettanti, che viene fatta dai moli del porto o dagli scogli, con esche varie come lombrichi, gamberi o comune pastetta, secondo la specie del pesce.
Gli elbani con le barche amano molto "andare a totanare". È una pratica molto diffusa: si fa con una specie di ancorotto formato da una serie di piccoli ami uniti dalla cera o avvolti da un filo colorato.
Si esercita nei mesi di ottobre e novembre a strascico, avanzando cioè lentamente con la barca a remi, o alla "sena", con la barca ferma, alzando e abbassando alternativamente la totanaia con il braccio.
Molto diffusa è anche la pesca del polpo con la polpaia (tre grossi ami uniti ad ancorotto), alla quale sono agganciati una boga, un granchio e uno straccetto bianco. Nel 1960 qualche anziano pescatore, lo si vedeva lungo il molo di Portoferraio che si dedicava a questa pratica di pesca. "Il bianco è la passione del polpo", scrive il Sestini nel suo volume "Omaggio all'Elba". "i suoi tentacoli afferrano la polpaia e il polparo con uno strappo lo trae dalle acque...". Una volta issato a bordo, il polpo "si attacca alla mano che lo afferra, ma il polparo non gli da tempo: con un morso nella parte più debole del collo, lo uccide e lo getta nel fondo della barca". Il Sestini parla anche della pesca con la fiaccola che si fa "nelle notti in cui la luna e le calme marine sono favorevoli".
E poi ci sono altre specialità come la pesca a traina per dentici e lecce, che si catturano anche con un filaccione innescato con un'aguglia viva e calato da un sughero. I pesci più comuni delle pescherie locali sono quelli più a buon mercato: boghe, lacerti, sardine, acciughe, palombi, polpi e totani, ma soprattutto lo zerro, di largo consumo perché "è ottimo cucinato in tutte le maniere: lesso, fritto, in cacciucco, in minestra asciutta e in brodo, ma è consigliato arrosto o marinato"; così scrive Sandro Foresi, che di pesce s'intendeva, tanto che scrisse un libro "Pesci, pesca e pescatori nel mare dell'Elba", nel quale passa in rassegna ogni specie di pesce locale, con la spiegazione del modo di cucinarlo. Lo stesso autore racconta anche di una cernia catturata a Monte Cristo dove era andato in gita con alcuni amici di Porto Azzurro. Tuttavia per le cernie non c'è bisogno di andare tanto lontano; se ne pesca anche all'Elba fra Capo Calvo e la Punta delle Ripalte, come sanno bene gli elbani Carlo Gasparri e Renzo Mazzarri, campioni del mondo di pesca subacquea
Allo scoccare del Terzo Millennio, la maggiore isola dell'arcipelago della Toscana si appresta a vivere un turismo (divenuto a tutti gli effetti la principale fonte di ricchezza e di reddito della popolazione residente) che si coniuga sempre più attorno al paradigma dello "sviluppo sostenibile". Concetto nuovo, questo, entrato da poco nel vocabolario isolano. Che significa: i processi di cambiamento impressi alla società devono tener conto dell'ambiente e trovarsi in armonia reciproca tra habitat naturale e sfruttamento delle risorse, tra andamento degli investimenti, orientamento dello sviluppo tecnologico, mutamenti istituzionali e soddisfazione dei bisogni, delle aspirazioni dell'uomo, come si legge nell'"Agenda 21 dell'arcipelago della Toscana". Insomma, l'uomo ancora una volta al centro dello sviluppo delle Isole. Oggi più che mai. Così "paesi, paesani e paesaggi" diventano un tutt'uno: un valore unico, una "costruzione culturale" elaborata dalla società che riconosce "i legami materiali e immateriali" con le cose e "li elegge a valori della proprià vita e delle proprie attività individuali e sociali"